elisabetta di maggio

IL MURO DI LUCE
Chiara Bertola

Negli ultimi lavori Elisabetta Di Maggio ha tagliato,
asportato, tolto, pulito e rarefatto ancora di più il
suo fare. Ha scavato e inciso con il bisturi la dura
pasta dell’intonaco sui muri di gallerie,musei e case
private, poi ha tagliato la carta, seguendo le volute
dei merletti, e continuando in altro modo, a tracciare
e certificare il passaggio della sua esistenza.
È un lavoro che si nutre di tempo. Tutto il tempo
necessario a quell’accurato, estenuante e preciso fare
che porta alla realizzazione della sua forma. Quel
tempo - sempre importante per lei e per il suo lavoro,
è diventato oggi, la materia principale entro cui
cresce e si dipana la sua fragile e preziosa opera. Non
più il tempo che disfa la forma, come in Pianto
(1999), in cui il ghiaccio necessitava tempo per sciogliersi e trasformarsi in musica e in altra forma; o
come in Stupro (2000), in cui del sapone avrebbe
voluto lavare nel tempo, il dolore della violenza
iscritta nelle parole incise sulle saponette. Qui il
tempo era utilizzato come un elemento quasi ‘alchemico’, necessario per trasformare materie e forme in altro, per distruggere e non lasciare traccia di niente.
In questi ultimi lavori, invece, il tempo è qualcosa di
diverso nell’economia del farsi dell’opera: è più
semplicemente quello dell’esistenza, più simile a
quello naturale entro cui le piante crescono e germinano i semi nella terra. Siamo di fronte ad un
lavoro che ha a che fare con quella bellezza che ci
sorprende sempre quando incontriamo un oggetto
naturale, come per esempio, un fiore che cresce. Il
lavoro di quest’artista è una ricerca complessa, cresciuta nello studio, nella lentezza e nel rigore di una
pratica che costruisce sui dettagli, controllando ogni
particolare e ogni passaggio. Solo silenzio e disciplina
quotidiana scandiscono i ritmi del fare che conducono
alla sua opera, dove il tempo quotidiano e
quello del lavoro fanno parte di un medesimo progetto
esistenziale.
Tagliare la carta dentro un disegno indefinito, dare
corpo e profondità ad un materiale fragile fino a
scorgere dentro il disegno dei tagli, la possibilità di
uno spazio.
La materia che noi tocchiamo è fatta di spazi vuoti e di
luce, tagliando il tempo si crea lo spazio.
Nel lavoro precedente, sulla parete della galleria,
aveva tagliato col bisturi l’intonaco del muro in
forma di fiori.Tagliando venivano fuori gli strati del
colore sottostante di altri interventi, andava a mettere
le mani nel tempo trascorso sopra quel muro,
come se fosse terra. Scostava il passato, lasciando che
si affacciasse al presente e viceversa. Il tempo presente e il confronto con il passato è qualcosa che
appartiene alla sua ricerca.
Elisabetta lavora sull’essenza, sulla sospensione. Non
esiste accumulo o quella confusione che molto
spesso serve a depistare rendendo misteriose cose
che non lo sono. C’è una sorta di determinazione e
ostinazione al lavoro. Soltanto questo è il ‘fare dell’artista’: fatica e tempo. Asciugare, eliminare rarefacendo, rimanere in bilico su un pezzo di carta che
può lacerarsi al minimo sbaglio.
Nella sua ultima installazione presentata a Verona, il
tema del muro è al centro. Appena entrati nella galleria,
un muro appositamente costruito divide lo
spazio trasversalmente in due parti. La parete in
questione si trasforma poi, lungo l’asse verso sinistra,
in un muro di carta sottile e fragile come un velo.
Si tratta di una grandissima carta - montata come se
fosse ‘portante’ come una vera parete -, interamente
intagliata di preziosi e fitti disegni. Non c’è un disegno
ma piuttosto l’unione di frammenti di disegni
tagliati che alla fine formano un grande arazzo in
negativo. Disegni tagliati, irriconoscibili se non
come una massa fluttuante e germinante su di una
superficie. Direi piuttosto un terreno in movimento,
un disegno che sembra trasmigrare da una forma
all’altra in modo instabile. Sono motivi tratti da vecchi
merletti – dal cinquecento ad oggi -, i quali già
mischiavano alla tradizione occidentale motivi arrivati
dall’oriente: l’arabesco. L’artista sa che utilizzando
quei motivi troverà la possibilità di lavorare su di
un terreno che si muove nel tempo. Insistere e
approfondire questa ricerca, ha significato per lei de
motivi che trasmigrano da una cultura all’altra, che
attraversano il tempo e lo spazio ancora con una
vitalità inaspettata.
Dal disegno di un ricamo del passato, Elisabetta Di
Maggio ha ‘tessuto’ un altro ricamo, quello del
tempo trascorsovi dentro nel lavorarlo. Come un
racconto la cui narrazione ha costruito alla fine uno
spazio negoziato con il reale, lo spazio-casa della
parete. “... la materia che mi passa tra le mani è il tempo, che attraverso il tempo diventa spazio. Questa è l’opera”.
Dentro e su quel rettangolo di carta l’artista ha trascorso mesi e mesi della sua esistenza - questo è il
tempo impiegato per tagliare e asportare via con il
bisturi affilato la carta, il pieno, il ‘positivo’ che
riempiva il disegno, e non è difficile scorgervi tessuto
in quelle decorazioni il tempo stesso della propria
vita.
Su quel muro sapientemente ‘bucato’, il tempo ha
tessuto dunque una materia che sembra fatta di
niente, di spazio vuoto, ma che invece lascia filtrare
la luce che arriva dall’altra parte. Dietro il muro di
carta, attraverso i buchi dei ricami, s’intravede l’altra
parte dello spazio diviso: uno spazio inondato di
luce. Al di là, lungo il perimetro a pavimento, ci
sono dei neon che riflettono la luce sulle pareti
colorate di verde chiaro. La luce verdastra e forte
irradiata da quella parte infonde un senso di sospensione per quello spazio che non vuole definirsi.
Sospendere significa tenere insieme e il vicino e il
lontano e non trovare una soluzione. Il verde per
l’artista è sentito del resto, come un colore gravido
di qualcosa che ancora deve nascere e svelare i suoi
frutti.
Un muro che divide uno spazio subito evoca muri
che sono caduti e purtroppo anche quelli che si
stanno costruendo oggi per separare e proteggere
dalle differenze. Ma questo è troppo fragile e troppo
prezioso, e basta un gesto per lacerarlo e passare
oltre. Di fatto quella fragile membrana che separa i
due spazi ci riconduce al nostro spazio interiore e
alle difficoltà che abbiamo verso i cambiamenti e i
passaggi di crescita. Questa parete di Elisabetta Di
Maggio è un’enorme finestra attraverso la quale si
riesce solo a intravedere quello che sta dall’altra
parte. Una sorta di ragnatela, di membrana che respira tra qualcosa che è il conosciuto e il completamente ignoto che sta dall’altra. Dunque non vediamo, non abbiamo una vista completa, mentre la sensazione che oltre ci ia qualcosa di nuovo e al di fuori di noi, è forte.
Come a dire che per andare al di la di noi stessi e
del nostro limitato angolo visuale dovremmo attraversare il conosciuto e superarlo infrangendolo.
Come a dire che per passare dall’altra parte non
resterebbe che lacerare quel ‘velo’ prezioso e protettivo.
Infrangere schemi e luoghi comuni, spingersi
oltre, volere qualcosa di più nella coscienza.
La parete è monumentale, è ingombrante è simbolo di una tradizione che ti hanno trasmesso e che ti porti dietro per questo è così lavorato e così prezioso. Fai fatica a perderla e a lasciarla. È come rinunciare al lusso.
Le forme che si disegnano con i tagli, i merletti
uniti e trasformati in qualcosa d’altro, formano un
giardino nel giardino, volute astratte di fiori e di
vegetazione che si completano e continuano a germinare della nostra immaginazione.Vedere attraverso queste forme astratte e fiorite può diventare
ancora un’esperienza ulteriore. È un racconto
sospeso, l’incipit di uno sguardo che può continuare
a vedere altro in quello spazio illuminato e sospeso.
Oltre quel muro di carta c’è tutto lo spazio perché
ciascuno vi legga una propria storia di luce.

Le citazioni in corsivo nel testo sono dell’artista tratte da una conversazione con Chiara Bertola in gennaio 2004.

 

NEL DESERTO ABBAGLIANTE DELLA CARTA VELINA
Francesca Pasini

Gli intagli di Elisabetta Di Maggio sono un precipizio
che scontorna il gorgo di ossessione in cui è
stato rinchiuso il lavoro e il destino delle donne.
Con bisturi di varie misure incide, sulla carta velina,
o sull’intonaco delle pareti, il disegno di ricami e
pizzi. Le sue lame acuminate colpiscono senza clamore, senza aggressione, senza eroismo, ma fanno
sobbalzare. La stilla di sangue, prodotta da una puntura, costringe, infatti, l’attenzione a rientrare nel
bianco della tela, a chiudersi in un tempo senza
coordinate. Quali punti cardinali si potevano individuare quando si stava per ore, per giorni a ricamare per sé o per altri? Se il risultato era un decoro destinato ad esser sgualcito, a restare come immagine di fondo per una vita di trine che non interferiva col
mondo, dov’era il futuro? È la storia di Penelope,
ma anche di Shahrazad.Ambedue, tra il telaio dei fili
e quello delle parole, raccontavano, raccontavano,
raccontavano per scompaginare l’attesa. Non era
quella dello sposo o della morte, ma dell’immobilità:
è questa che ha reso invisibili le donne.
Shahrazad e Penelope inventando, notte dopo notte,
le immagini che permettevano loro di vivere di
giorno, hanno sconfitto l’immobilità: attraverso la
ripetizione, ovvero il cardine dell’immobilità, creano
il passaggio per uscire dai loro confini.
Di Maggio recupera questo filo e lo trasporta sulla
carta, sulla materia che unisce l’arte e la scrittura,ma
sceglie quella più debole, più sgualcibile, più difficile
da conservare. Il suo è un esercizio assurdo, eppure
mostra come l’ossessione possa riempire la testa,
le mani, il cuore. Per fare questi intagli cammina sui
bordi della ripetizione con costanza, attratta dalla
vertigine, ma non si dà per vinta e affabula sempre
nuovi giri di bisturi, qua una rosa, là un petalo, là un
decoro astratto. Appaiono lunghi rotoli di luce, che
lei conserva in scatole di acciaio, algide come i
bisturi. Così sigilla l’emotività della figura.
È un’emotività che si riallaccia alle tracce leggere
della storia come le carte personali, le sottolineature
di un libro, le foto sbiadite, le stoffe. L’oblio, un
mercante accorto che non ama carichi pesanti, le
trasporta e le protegge dalla distruzione, tant’è che
queste tracce continuano a emergere.
Nel suo bagaglio di viaggio Elisabetta Di Maggio
porta con sé il tempo, un bene prezioso e fragile,
esattamente come i ricami che l’oblio le ha consegnato
intatti.
Nella trasparenza di queste strisce di carta, a volte
lunghe vari metri, si intravede un nomadismo assolutamente inedito. Elisabetta cammina per ore nel
deserto abbagliante della carta velina, ci fa immaginare,
dune, miraggi che non appaiono all’esterno,
ma all’interno di chi decide di costeggiare la ripetizione.
È un precipizio che fa paura e, come tale,
attrae e respinge. Fa paura perché obbliga alla compagnia di se stessi, perché impegna in scelte lente,
perché le cose ripetute si usurano, perché interno e
esterno si confondono: soprattutto, perché si ha la
sensazione di perdere tempo.
Il tempo non distingue tra esterno e interno: questo
dice l’intaglio che Elisabetta Di Maggio ha
fatto nelle pareti della sua camera da letto, dove -
tra i vuoti del ricamo - fa affiorare la pelle di
intonaci precedenti. Piccoli aloni di colore, quasi
delle muffe che funzionano come spie della vita
altrui. È un’immagine inamovibile, pena la perdita,
come forse sono inamovibili le perdite che
ognuno patisce.
Camminando nel mondo senza attraversarlo, lei si
muove come una nomade con lo sguardo fisso alla
luce che proviene dai suoi ricami e dalla smisuratezza
dell’immaginazione materiale. L’immobilità si
rompe. Come Shahrazad e Penelope, Elisabetta Di
Maggio, intaglio dopo intaglio, dando figura alla
ripetizione, esce dai confini dell’ immobilità.
Nella sua insistenza a restare aderente alle tracce
leggere della storia, a quei frammenti che accompagnano la vita di tutti, c’è una visione della memoria individuale, privata, che spesso è apparsa nella letteratura, ma che è il sale del racconto orale. Ricamare è un lavoro sedentario, ma non solitario, accetta compagnia: delle persone, della radio, della musica.
È spontaneo collegare le immagini di Elisabetta di
Maggio a dei racconti, anche perché il disegno,
riempiendo lo spazio della carta, evoca la scrittura e
una voce che si intreccia alle figure.
Il racconto orale è legato alla ripetizione e alla realtà
delle donne. Cucire, cucinare sono azioni che si
fanno e si ripetono e che fanno da sfondo alle storie
personali, esse raggiungono il racconto storico
per vie traverse. Una di queste è quella dei manufatti
domestici che ognuno eredita. Nei ricami che
Di Maggio riprende c’è questa corrispondenza: è
immediato ricordarli nelle case delle nonne, nei
vestiti di qualche decennio fà. Ma il traforo di luce
ci spinge in oriente, dove è applicato anche all’architetture, e dove, tramite Shahrazad, le storie raccontate dalle donne sono simbolo dell’origine stessa della narrazione.
Questi pizzi di carta, a metà tra un’architettura fiabesca
e il ricordo privato di casa, credo facciano a
tutti venire in mente i racconti orali.
Ho letto di recente uno straordinario romanzo di
una nipote e di una nonna: Gente in cammino, di
Malika Mokeddem (Giunti, 2002) e tra le pagine ho
riconosciuto le figure di Elisabetta. Ho capito che,
quel tratto orientale, non era solo riportabile ai
decori a traforo architettonici, ma al suono degli
yu-yu, il grido, simile a campanelli, che fanno le
donne per segnalare la gioia per la nascita, per la fine
dell’occupazione francese in Algeria, per ogni evento
privato o pubblico. Mi hanno ricordato l’esattezza
e l’emozione dei ricami di Elisabetta.
Zohra, la narratrice della famiglia dice alla nipote
Leyla: “Io sogno molto. Parecchie delle mie storie
sono soltanto frutto dei miei sogni. E i miei sogni
sono come i nostri yu-yu, parlano agli altri. Li trasportano in un volo a stormo, per compiere una
magica migrazione che poi, appagata, raggiunge di
nuovo la realtà”. I pizzi di Elisabetta suggeriscono
questo volo e mi portano all’immobilità, patita da
Zohra che, per andare sposa, ha dovuto rinunciare al
nomadismo e al deserto. “I suoi racconti furono il
mezzo che usò per sopravvivere.
Con il corpo imprigionato, camminò nelle parole,
cercando quelle che univano il proprio passato
all’avvenire di sua nipote”.
Elisabetta Di Maggio, cercando nelle parole e nelle
mani delle nonne le tracce che la uniscono al loro
passato, ha fatto il cammino inverso.
Come yu-yu, i suoi ricami parlano di un nuovo
nomadismo, escono dalle stanze da letto, dalle cucine,
dai comò e danno figura a una storia che è stata
a lungo imprigionata e a una libertà appena conquistata.
A Zohra, forse, piacerebbe.