janieta eyre

LADY LAZARUS
Walter Guadagnini


A proposito delle fotografie di cavalli in corsa, Rodin sosteneva che "è l'artista ad essere veritiero, e la foto bugiarda, perché, nella realtà, il tempo non si ferma": quando afferma che "i media e la fotografia hanno qualcosa in comune: sono entrambi invenzione, piuttosto che realtà",Janieta Eyre sembra riprendere, in chiave aggiornata, quel ragionamento, confermandosi anche, a dispetto delle apparenze, erede di una tradizione assai più lunga di quanto non venga abitualmente sottolineato. Nell'ormai ricca bibliografia relativa alle pratiche di travestimento e mise en scene che di recente hanno invaso il mondo delle arti figurative, e in particolare quello della fotografia, spesso si ricordano, infatti, le origini di questa pratica, che rimandano alla grande stagione della cosiddetta fotografia artistica e ai suoi più celebri rappresentanti, da Rejlander a Julia Margaret Cameron, a quella Mary Hillier trasformata cosi tante volte nella Vergine Maria da meritarsi il soprannome di Mary Madonna: non poco, in quanto a falsificazione della realtà, trattandosi di una modesta servitrice di casa Cameron.

Ma se le radici d'una propensione falso, alla reinvenzione della realtà in chiave teatrale si situano - non solo per Eyre, ma anche per Sherman, Ontani & - dentro quel clima (e non si dovrebbe dimenticare che tanto all'inizio quanto alla fine del secolo questa pratica coincide con una esplicita volontà di confronto della fotografia con la pittura, li per acquistare finalmente una dignità artistica, qui per riaffermare una centralità ormai conquistata), se le radici, si diceva, stanno in quel clima, non dimeno le ragioni del lavoro di Eyre sono, ovviamente, sostanzialmente diverse, così come diversi sono i risultati. Anzitutto perché nel frattempo molte personalità decisive hanno affrontato queste tematiche, fornendo ulteriori spunti di riflessione (si pensi solo, pur nell'abissale distanza concettuale che li separa, al fondamentale The Family Album af Lueybell. Crater di Ralph Eugene Meatyard e ai primi autoritratti en travesti di Urs Luthi, forse non casualmente nati entrambi all'inizio degli anni Settanta), e in secondo luogo perché altra è la sensibilità di un'artista nata a Londra alla metà dei Sessanta e da tempo attiva in Canada (e bisognerebbe forse ricordare che le immagini apparentemente realistiche di Jeff Wall sono anch'esse frutto di manipolazioni, sono anch'esse inscenate).

Una sensibilità anzitutto, cresciuta su una disincantata commistione di high and low, dove il rimando alla pittura antica vale quello al fumetto, dove Alice in Wonderland non è solo il libro di Carroll (fotografo della cerchia Cameron, peraltro) ma è anche la traduzione cinematografica disneyana, dove Greenaway si può mischiare con il Waters di Pink Flamingos, passando attraverso il Casanova felliniano, dando vita a un immaginario totalmente deviato e deviante rispetto ai corsi abituali dei tramandi artistici - come accade, non a caso, anche nel più recente ciclo di Tracey Moffatt, spericolato tentativo di coniugare la Quinta del Sordo con Fantasia
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Ma, ciò detto, cosa si vede nelle immagini di Janieta Eyre, oggi esposte per la prima volta in una personale italiana? Che cosa, in sostanza, le distingue dalle non poche immagini che nel corso degli anni Novanta hanno affrontato i temi del doppio, del travestimento, dell'identità, del rapporto tra realtà e finzione, temi che rappresentano il nucleo della poetica di Janieta Eyre? In primo luogo, pare di poter dire, si tratta di immagini permeate di uno humour nero degno dei migliori racconti di Ambrose Bierce e Jonathan Swift: le scene infatti contengono nella maggior parte dei casi un elemento tragico, o quanto meno fortemente inquietante, che sorge dalle stesse figure recitanti, alle prese con evidenti problemi fisici o psicologici, dalla stessa, costante presenza del doppio (inquietante per definizione, dal ripetuto topos di una cecità contemporaneamente subita e ricercata. Ma proprio la presenza eccessiva di questi elementi trasforma la percezione della scena, ne vira il significato in chiave grottesca, suggerisce la presenza di un regista esterno (l'artista stessa, in questo caso) che, mentre riprende la scena che lei stessa ha
costruito e di cui è protagonista, ne avverte
I’insensatezza, l'improbabilità. E una sorta di impossibiltà del tragico per eccesso di consapevolezza, quello registrato da Janieta Eyre in queste fotografie, come testimonia esemplarmente "Burnong Cake" che dà il titolo a un'opera del 1999:c e un surplus di serietà nel volto della protagonista, che cozza fragorosamente contro la banalità della scena, trasformandola in una gigantesca blague.

D'altro canto, e forse all'opposto, queste immagini mantengono un carattere misterioso, suggeriscono qualcosa che non si riesce mai ad afferrare completamente (e non a caso, ancora, i titoli parlano di fantasmi, di Lazzaro, di anime...), ponendo lo spettatore in una condizione di disagio, solo parzialmente riscattato dalla già citata vena di surreale e macabro umorismo. Un disagio creato anche, quando non soprattutto, dagli ambienti all'interno dei quali si muovono i protagonisti della rappresentazione. Due sono, sostanzialmente, gli elementi portanti della scena, l'uno dal carattere macroscopico, l'altro più sottile, ma non per questo meno significativo. Il primo è senza dubbio costituito dall'incongruenza dei singoli brani che compongono l'interno, brani volutamente accostati in totale dispregio di qualsiasi bon ton arredatorio, forse guardando con affettuosa ironia taluni scatti del Beaton degli anni Cinquanta. Eccessivi i personaggi, eccessivi gli ambienti, dunque; sovraccarichi di segni, di forme, dove le scacchiere geometriche si sposano con improbabili memorie vittoriane, dove il cattivo gusto convive con inattese raffinatezze, dove i simboli si sovrappongono sino a elidersi a vicenda, in un totale rispecchiamento tra personaggio e ambiente.

Luoghi abitati da un horror vacui ancora una volta al confine tra inquietudine e sberleffo, Wunderkammer dell'orrido piccolo-borghese, dove i mirabilia hanno definitivamente soppiantato i naturalia. il risultato finale appare infine, e non potrebbe essere altrimenti, come un gigantesco non senso, nel quale ogni interpretazione sembra essere al contempo legittima e insostenibile. Eppure, a ben guardare, alcuni dettagli meno appariscenti sembrano fornire una possibile chiave di lettura, se non univoca almeno credibile. E sufficiente soffermarsi, ad esempio, su una delle immagini più banali di questa mostra, all'apparenza caratterizzata solo dall'insolito trucco della protagonista, “Making Babies": sulla destra, in alto, tre comunissimi contenitori contengono in realtà, secondo le didascalie che gli accompagnano, sangue, latte e sperma. La chiave, forse, è qui, nel perturbante - già così caro ai surrealisti -, che invade la realtà, la quotidianità, trasformandola in un sogno o in un incubo. Non aveva forse scritto proprio Breton che "la beauté sera convulsive, ou ne sera pas"? A ben vedere, di tali particolari rivelatori, di tali indizi, sono ricche le opere di Eyre; che possono, allora, essere lette anche come interrogativi visivi, come gli enigmi posti dalla Sfinge, che solo l'illuminato (in questo caso l'artista stessa) può sciogliere.

Tutto ciò funziona, e può funzionare, infine, rispondendo a una necessità di base, all'unico, vero elemento cui queste opere non possono rinunciare, pena il crollo dell'intero edificio da esse costruito, vale a dire l'equilibrio tra invenzione e verosimiglianza.

Due sono, ancora una volta, le strade percorse da Janieta Eyre per raggiungere questo risultato: il carattere teatrale (non a caso posto in luce di recente da David Frankel come elemento distintivo del lavoro di Eyre rispetto a quello di Cindy Shcrman) è evidenziato dalla presenza dell'artista come protagonista di tutte le scene, sia essa singola o sdoppiata; il carattere realistico, quasi, verrebbe da dire, documentario, è dato dall'assoluto rigore con il quale le scene sono costruite, un rigore che conferisce all'immagine un senso di straniata credibilità. O, per dirla con le parole dell'artista: "I miei non sono autoritratti ma immagini attinte dai ricordi di sconosciuti; immagini in cui spero di non individuare niente di riconoscibile o di premeditato. Abbracciano un'accumulazione di memorie impossibili, la documentazione deliberata e meticolosa di un'irrealtà:
trascurando la mia vita quotidiana ne documento una invisibile. Costruisco così un'autobiografia che dipende più dalla possibilità che dalla realtà": in questa documentazione dell'irrealtà, dell'invisibile, realizzata con la cura meticolosa che l'alchimista riserva alle proprie sperimentazioni, risiede il fascino ultimo e profondo di queste immagini, capitolo ulteriore di quei mystères de la chambre noir che seguono la fotografia, sin dai tempi della sua nascita. Là, dove i fantasmi prendono corpo, senza cessare d'essere fantasmi.