sergio ragalzi
Caro Ragalzi,


ci conosciamo ormai da tanti anni e l’occasione di questa tua mostra a Verona, città che mi ha dato molte opportunità professionali e in cui vivo intense giornate, mi fa tornare con la mente ad un’altra città che mi unisce a te, almeno nei ricordi. Erano gli inizi degli anni Ottanta, e Torino era per me la seconda patria d’arte. Avevo diversi amici artisti e, non lo nascondo, subivo il fascino di quello che essa aveva rappresentato negli anni precedenti. A Torino avevo fatto, proprio al debutto di quel decennio, la mia prima mostra pubblica, le mie prime presentazioni, insomma, la città sembrava quanto mai dinamica e, soprattutto, la trovavo a me congeniale, e quando, un paio di anni dopo, si trattò di tornarvi per conoscerti e visitare il tuo studio, lo feci con il doppio entusiasmo di poter vedere dal vivo i tuoi lavori e di rientrare con un obiettivo professionale nel capoluogo sabaudo.
La mia idea della figura di artista, in quel dato momento storico, coincideva naturalmente con quella della mia generazione, ed era dettata dal comune interesse per la pittura, per quel cosiddetto ritorno alla pittura che, certo, di fronte alla straripata falange concettuale dei tardi anni Settanta, rappresentava qualcosa di più organicamente e visceralmente vissuto. E dico cosiddetto ritorno perché, in realtà, non si trattava di ripercorrere già sperimentate strade, quanto piuttosto di riappropriarsi di un’esperienza, di una dimensione espressiva che corrispondesse alla condizione d’esistenza.
Forse ricorderai il titolo di quell’articolo apparso su “Flash Art” in cui parlavo del gruppo di artisti che seguivo con passione, attivi in quegli anni presso L’Attico, te compreso. Era il 1985, e con quel titolo, “La pittura mutata”, volevo indicare appunto la mutazione dovuta al diverso atteggiamento, piuttosto che alla diversa forma pittorica, con cui i giovani di allora si accingevano a dipingere. Condizione questa che non riguardava te soltanto ma l’intera generazione che a Roma, piuttosto che a Torino, si era manifestata con grande efficacia.
Quando misi piede in quel tuo piccolissimo buio studio di via Chiomonte, dove mi invitasti ad entrare non curante di calpestare le scure tele stese sul pavimento, una sopra l’altra, come tanti tappeti nella tenda di un nomade, capii subito di trovarmi di fronte ad un artista di temperamento, ad un pazzo avrebbe detto bonariamente mia madre, che non capiva né i nostri problemi di allora, soffocati come eravamo dal clima pesante degli anni di piombo, né le aspirazioni e le ansie che mi accomunavano ai miei amici artisti. Capii anche che non vi era distanza tra te e loro: appartenevamo tutti alla stessa generazione, nata nei primi anni Cinquanta, e condividevamo, almeno allora, gli stessi ideali e gli stessi disagi.
Del tuo temperamento avevo già la certezza; era bastato vedere alcune riproduzioni dei tuoi primi lavori. Ma volevo averne un’ulteriore conferma, volevo vedere dal vivo, toccare con mano le tue opere. E la sorpresa fu grande quando mi capitò, piuttosto che di toccare con mano, di calpestare nel buio di quella stanzetta quelle opere che intravedevo appena. Fu per me un atto fortemente trasgressivo, che dissacrava quel senso di riverenza che allora avevo per l’opera d’arte, lo stesso che avevo per la storia, così come mi derivava dagli studi universitari. Non credo di avertelo mai detto, ma fu per me, quella, una lezione di storia dell’arte. Di quel tuo comportamento compresi tutta la portata ideologica.
Cominciammo a tirar su quelle opere, una ad una, sollevando polvere e diffondendo quell’odore caratteristico di pittura ad olio, proprio quello stesso odore, immagino, cui si riferiva Duchamp quando lanciava i suoi ben noti strali contro gli intossicati della trementina per difendere la parte più concettuale dell’essere artista, contro quella più vile, pratica, del fare arte.
Il timore reverenziale con cui mi ero inoltrato su quel tappeto di tele svanì ben presto quando vidi che gli eventuali danni che tale gesto poteva arrecare – lacerazioni, abrasioni, impronte, sgualciture – contribuivano alla realizzazione dell’opera, erano parti essenziali, quanto occasionali, del tuo linguaggio, del tuo modo di far pittura.
A questo modo di presentarti e di comportarti corrispondeva pure una tua idea già matura, che si espresse in modo quanto mai chiaro nelle tue due prime mostre personali. Nel 1984 da Sargentini e nel 1986 da Paludetto. Due gallerie con cui collaboravo assiduamente in quegli anni e che rappresentavano per me il collegamento tra Roma e Torino. Anche se non presentai nessuna delle mostre – la prima fu introdotta da Emilio Villa e la seconda da Rudi Fuchs – per me rappresentarono comunque una vittoria sentimentale.
Sarebbero sufficienti i titoli di quelle due mostre per evidenziare a pieno la tua poetica, Relitti sessuali e Ombre atomiche, che rimandavano agli effetti degenerativi di un’azione perpetuata nel tempo da una società che non considera l’essere uomo un valore, che non lo considera il denominatore comune di ogni gruppo sociale, ma lo pensa, piuttosto, come massa. Ecco, sì, l’uomo-massa nell’era del capitalismo avanzato.
C’era nelle Ombre atomiche, nel tuo comportamento, nel tuo studio, nei tuoi lavori sempre tutti neri, qualcosa che ricordava il pessimismo esistenziale degli anni Cinquanta. E devo dire che anche formalmente avevi prodotto alcune tele di una bellezza sconcertante che, commentavamo in occasione di quelle mostre, avrebbero entusiasmato perfino Burri. Non citavamo a caso il pittore umbro, c’erano due ben valide ragioni per farlo. La prima era nell’energia che sprigionava dalle tue tele sdrucite e in una seppur vaga assonanza formale; la seconda, mettendoci un pizzico di malizia, risiedeva nel fatto che Burri non vedeva concorrenti, in nessun caso, e ci divertiva pensarti in competizione con lui.
I ricordi dei primi anni finiscono lì, verso l’87. Ci perdemmo di vista. Mi inoltrai in ripensamenti che mi portarono ad occuparmi di mostre storiche, proprio qui, a Verona, con Giorgio Cortenova: occasioni per riflettere sui precedenti novecenteschi di quelle nostre esperienze destinate a chiudere il secolo.
Poi, a distanza di anni, nel ‘95, fui chiamato a curare gli interventi per il Parco di sculture di Ozieri, in Sardegna: fu quello un pretesto per riallacciare i nostri rapporti. Visitando di nuovo il tuo studio mi accorsi ben presto che le cose erano cambiate anche per te, non abitavi più a Torino e avevi lasciato il vecchio studio. Ora abitavi nel Canavese, in una di quelle case tipiche della zona e, bisogna dirlo, vi si respirava tutta un’altra aria. Non dipingevi nemmeno più in quel momento, se dipingere si può definire quella pratica particolare che mettevi in atto negli anni precedenti e che poi nel tempo hai ripreso. Ora realizzavi grandi strutture metalliche, degli enormi insetti neri che strisciando si insidiavano nelle gallerie, nelle case dei collezionisti.
Facemmo in modo di far sospingere dal vento un grande insetto di tre metri per due, di farlo volare oltre il Mar Tirreno fino in Sardegna, dove si aggrappò su un muraglione di sostegno di una strada che a fatica saliva verso la parte alta della città. In quella terra di Nuraghes, di Tombe dei giganti e di Domus de Jana, dove l’arte contemporanea trova difficili ragioni d’essere, quell’insettone nero, simbolo traslato di un endemico stato di malattia del nostro vivere quotidiano, poteva rappresentare un presidio.
Adesso, a ripensarci meglio, mi viene il dubbio che allora, negli anni Ottanta, in quel clima di entusiasmo generale per la pittura, intendo dire proprio per i pennelli, le tele e i colori, avessimo male interpretato la tua natura, il tuo vero disegno, le tue intenzioni. Era sbagliato, oggi lo vedo con chiarezza, ricondurti esclusivamente dentro la dimensione del fare pittura. Avrei dovuto capirlo subito da quel tuo particolare modo di lavorare, lo avrei dovuto capire quando misi per la prima volta i piedi sulle tue opere.
Ricordo chiaramente la vaga delusione di quanti si aspettavano da te il quadro, in senso stretto, e si trovarono di fronte le prime sagome metalliche dipinte e poggiate ai muri. Mettevi in atto, così, la tua trasgressione nei confronti della pittura stessa, testimonianza del tuo modo di essere, non violento ma testardo. Mi piace riconoscere in questo tuo modo costante nel tempo quell’atteggiamento dei vecchi contadini anarchici padani, indifferenti e ostinati contro tutto e tutti. Mi sei sempre sembrato, e per questo mi eri simpatico, un anarco-individualista quando indossavi il vestito nero con la camicia bianca chiusa al collo.
Quei primi ferri bombati, certamente più dei quadri, si possono intendere oggi come la manifestazione di un dissenso per il mondo, la voglia di contestare a voce bassa, sì, ma sempre e comunque, per farsi sentire da tutti. E fin d’allora arrivarono le prime avvisaglie di non accettazione di quel tuo denunciare la condizione di malattia dell’essere. Mi riferisco, come ben ricorderai anche tu, a quel progetto di mostra personale a New York che poi saltò perché, si disse, erano troppo crudi i temi che affrontavi, troppo forti le forme che usavi.
Nel corso del tempo sei passato dalla visione cosmica delle Ombre atomiche alle concezioni particolari delle Teste di iena, degli Insetti, al microcosmo dei Virus, sei entrato nell’organismo umano, fino ad arrivare alla serie genetica, per ritornare proprio recentemente, ab ovo, all’embrione. Ed eccoti di nuovo a Verona dopo poco più di dieci anni. Chi ricordi la mostra alla galleria Fuxia Art, sempre di Girondini, nel 1989, e le Farfalle notturne che presentasti in quell’occasione, e veda oggi le opere esposte in questa mostra, non potrà non notare come alla tua continuità poetica ed espressiva corrisponda una variegata ricerca formale nonché un uso altrettanto differenziato di materiali. Non potrà non notare, alla luce di una ricognizione più complessiva, il tuo carattere extra-pittorico. Tale affermazione potrebbe apparire perfino banale al cospetto di un’opera come Gemelli, dall’evidente carattere scultoreo, se non fosse che né la tua pittura è pittura né la tua scultura è scultura. Esiste una certa uniformità di trattamento delle superfici per la quale potremmo soltanto dire che se la superficie trattata si approssima alla bidimensionalità è pittura, e se invece si approssima alla tridimensionalità è scultura, null’altro. Esiste da sempre un’omogeneità nell’uso dei materiali con cui tratti i supporti, che siano vernici o schiume, antirombo, grafite, o più in generale pitture industriali, è come se la dimensione poetica, strettamente legata alla cruda esistenza umana condotta tra vita e morte, tra l’essere embrione o cadavere, si sviluppi attraverso materiali che, come sineddoche industriali, rappresentino la nostra particolare condizione storica di vivere nella società in cui viviamo.
Così, i caratteri distintivi del tuo lavoro e del tuo essere artista sono ravvisabili in una dialettica che va dal generale al particolare, che va dal cosmico al microrganico, e per coglierli non bisognerà avere sott’occhio l’intero tuo excursus operativo ma sarà sufficiente visitare una tua mostra, questa veronese per esempio, per averli lì, tutti riuniti, per trovarvi, in sintesi, quello che interpreto come il memento mori di un artista contemporaneo, un ricordare all’uomo, e se si potesse all’intera umanità, i propri limiti genetici: materiali e spirituali.
tuo affezionato Roberto Lambarelli